1° Maggio: una riflessione di Giuseppe Raffa, il pensiero del Presidente affidato alle colonne de Il Quotidiano della Calabria che titola "E cosa dire ai calabresi rottamati"?
In un momento di grave crisi come quello attuale, è giusto chiedersi se abbia ancora senso la festa del 1° Maggio. Questa ricorrenza è stata sempre una rievocazione delle conquiste del mondo del lavoro. Dai fatti di Chicago di fine Ottocento, che hanno dato vita all’universale ricorrenza, ad oggi sono state scritte tantissime pagine di storia da cui trarre una serie di feedback che ci indicano quanto sia difficoltoso non solo trovare un’occupazione, ma anche mantenerla e difenderla. Le crisi prodotte dalle globalizzazioni antiche e moderne hanno scaricato i loro effetti negativi sulle classi lavoratrici a tutto vantaggio del capitalismo degli industriali di ieri, basato sulla produzione delle merci, e quello finanziario dei nostri giorni. Quest’ultimo, caratterizzato, tra l’altro, dall’avidità di borse e banche, dalla guerra per la supremazia del sistema monetario che deve controllare l’economia mondiale e le fonti energetiche, non solo ha creato la subalternità della classe politica alla grande finanza, ma continua a produrre nuove povertà in tutto il pianeta. In questa cornice si muove anche il nostro Paese in cui i tecnici hanno preso il sopravvento sulla politica, imponendo sacrifici per il risanamento dei bilanci a tutto danno del welfare, dunque, anche di storiche conquiste del mondo del lavoro. Ai pesanti sacrifici richiesti alle famiglie non corrisponde il taglio di antichi privilegi di cui dispongono classe dominante e politica, con quest’ultima che non riesce più ad essere la vera protagonista delle attese dei cittadini, sempre più poveri e sempre meno tutelati rispetto a diritti fondamentali come il lavoro e l’esistenza dignitosa.
Anche in Italia, come in gran parte dell’Europa, il capitale sociale creato dal Welfare State sembra quasi dissipato, anche se i nuovi costi sociali derivanti da questo declino non appaiono esorbitanti, impossibili da sostenere. A patto, però, che non vengano imposti nuovi e pesanti sacrifici, come la pressione fiscale che, anche rispetto ad altre aree di crisi del Vecchio continente, è diventata insopportabile. Lo sviluppo richiede ben altro rispetto alle tasse e all’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità e delle tariffe dei servizi essenziali. Si parla di misure per lo sviluppo, di ripresa economica, di occupazione. Fino ad oggi si è trattato solo di propositi. E per quanto riguarda la Calabria registriamo solo la coreografica presenza di alcuni esponenti del Governo in carica, compreso lo shock del Ministro del Lavoro, dottoressa Elsa Fornero, venuto a Reggio per dirci quello di cui i calabresi sono consapevoli fin dall’Unità d’Italia. L’invocata nuova convergenza tra Nord e Sud, per salvare l’Italia, che la Ministra ritiene che il Paese abbia perso, non c’è mai stata: né durante la dinastia sabauda, né in oltre sessant’anni di storia repubblicana. Ripetere quello che nel corso della storia hanno sostenuto le punte di diamante del meridionalismo (Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci, tanto per citare i più conosciuti) è stata un’altra beffa nei confronti del Mezzogiorno e, in particolare, della nostra terra che, assolutamente, non ha bisogno di commiserazione ma interventi radicali diversi da quell’assistenzialismo che ha prodotto corruzione, dal clientelismo e dal forte disagio sociale che, spesso, alimenta i fenomeni criminali. Tutti i giorni, la Calabria, con le sue istituzioni e le forze sociali, deve confrontarsi con vecchie e nuove vertenze: con disoccupati che rivendicano il diritto al lavoro, con gente che l’occupazione l’ha persa, con cassintegrati, con stati di crisi che, prima o poi, aumenteranno il bacino di chi è stato espulso dal sistema produttivo. Cittadini rottamati, messi da parte senza prospettive future. Presidi di lavoratori sui cui volti è difficile trovare piccoli segni di speranza. Eppure le promesse d’intervento non mancano rispetto alle vertenze ( tanto per rimanere nel reggino) sul Porto di Gioia Tauro, sulle Taurensi, sulle Omeca, sul trasporto pubblico locale e rispetto a tante altre situazioni di crisi che rendono difficile la sopravvivenza anche piccole realtà produttive. Ancora ha un senso la festa del 1° Maggio? E cosa dire, a quanti si battono per continuare a guadagnarsi un salario, a quanti spingono per avere un’occupazione, a quanti fanno parte del bacino dei disoccupati senza sconfinare nello spazio della retorica? Difficile dare risposte esaurienti. Ma è altrettanto difficile negare l’attuale stato di tensione sociale che caratterizza le aree deboli del Paese, in particolare la Calabria, che chiede alla classe dirigente locale e, soprattutto, a quella nazionale, urgenti interventi per il rilancio dell’economia che passa anche attraverso la tutela della dignità dell’uomo che, come dice il vescovo di Locri, “non è merce di scambio”.